Things we lost in the fire

ErickxMeg

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    I wanna take you somewhere so you know I care But it's so cold and I don't know where I brought you daffodils in a pretty string But they won't flower like they did last spring

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    and I wanna kiss you, make you feel alright I'm just so tired to share my nights
    I
    ncrociò il suo sguardo, alzando leggermente gli angoli della bocca. Le loro labbra si sfiorarono dolcemente, la sua mano grande sulla schiena a premere appena per tenerla vicino a sé. Sentiva la testa pulsarle e, come ogni volta, le viscere contrarsi leggermente. Aveva imparato a farci l'abitudine, lentamente, nonostante il suo corpo le dicesse prima del suo cuore - ora silenzioso, come se avesse preferito non ascoltarlo - di allontanarsi, di mantenere la distanza di sicurezza, quella che ti permette di distinguere il rapporto che hai con una persona. La sua mano le carezzò piano la schiena, prima di risalire lungo il suo corpo e di sfiorarle dolcemente il collo. I loro occhi si incrociarono, mentre lui sorrideva appena, gli occhi scuri sempre così luminosi. Le baciò una guancia, mentre la sua schiena si irrigidiva leggermente ed il respiro le si bloccava appena. Distanza nulla.
    «Sei sempre così tesa» mormorò, con un sorriso tranquillo, la voce bassa e grave mentre le girava intorno, iniziando a farle un massaggio. Sarebbe fuggita dal suo tocco, così dissimile da quello amato e conosciuto che sembrava non sparire mai dai suoi ricordi e dal suo cuore. Schiuse le labbra bionde, per dire qualcosa, ma non ve ne fu bisogno. «Hai pensato a quello che ti avevo proposto?» chiese, speranzoso.
    Si passò una mano tra i capelli biondo platino, sorridendo lievemente. Erano tre giorni che cercava di allontanarsi da lui non appena avrebbe potuto chiederle qualcosa su quell'argomento che lei aveva deciso di accantonare quando solo l'aveva percepito avvicinarsi. «Ho avuto molto da fare» rispose solamente, in un soffio, guardandosi allo specchio. Sembrava molto più vecchia di quanto era realmente: ogni muscolo del viso teso, la fronte corrugata, i capelli leggermente spettinati. Poco ci mancava di trovare un capello bianco in tutto quel biondo. Sarebbe stato il colmo, davvero. «E non capisco, sinceramente, perché ora» non sapeva neppure dove stava andando a parare con quello che stava dicendo. Non voleva parlarne, ma se doveva farlo, tanto valeva cercare di mandare all'aria tutte le certezze del suo consorte di Sam.
    «Perché ora, cosa?» alzò un sopracciglio. Sam Inber sembrava non capire, e di fatto neppure lei ci stava capendo poi qualcosa. Cercava solo di temporeggiare, come ogni volta che doveva prendere una decisione di quel genere. Se si trattava di ribellione non ci pensava due volte, eppure quando si trattava di unirsi così indissolubilmente a Sam, aveva davvero qualche dubbio a riguardo. A partire dalla sua affermazione: era sempre così tesa. E non è che soffrisse di grande stress, lei. Certo, portare avanti una comunità prolifera di ribelli non era facile, ma non era per lei uno sforzo così grande. Il problema era con lui, quando erano soli.
    «Perché me lo chiedi proprio ora» sarebbe cambiato, se glie l'avesse chiesto prima? O se glie l'avesse chiesto dopo? Preferì non rispondersi, per non sentirsi male e sentire la voglia di urlare, di dirgli tutto farsi pressante, come se non potesse fare a meno di farlo. Aveva già pensato di parlare, di rivelare chi fosse lei in realtà. Di dirgli che il suo nome non era Amara Rowe, ma Meg. E che le sarebbe piaciuto essere proprio la Meg che era sempre stata, quella che aveva amato e che sapeva amare, e che non era ancora una ribelle. Era ancora un numero, ma assieme a lui. E come dire all'uomo che ti ama, all'uomo che voleva sposarti con tutto sé stesso, che tu eri ancora innamorata di una persona che non vedevi da cinque anni? Come rivelare che il suo nome, che il suo passato erano fittizi, e che aveva ucciso suo fratello senza rendersene conto, che era stata stuprata e violentata psicologicamente, venduta al migliore offerente, come dirgli che si era innamorata di un uomo che non vedeva da così tanto tempo, ma che ricordava ancora come se fosse stato ieri? Come poteva anche solo pensare di dirgli tutto questo, credendo che null'altro sarebbe cambiato? Viveva nella menzogna, viveva in un mondo che si era creata per non soffrire. E la cosa peggiore era che, infondo, si pentiva del giorno nel quale era riuscita ad avere la sua libertà. Se ne pentiva così tanto, perché quella che stava vivendo lei non poteva considerarsi vita. Perché avrebbe preferito tornare indietro, tornare in catene ma accanto a lui, piuttosto che stare lì, sperando che piano piano i ricordi si affievolissero. Sperando che, forse, Sam sarebbe divenuto quello giusto per lei, e che la cosa più giusta da dire in quel momento fosse sì. «È solo che..» ci pensò seriamente: dirglielo, dirgli tutto quanto. E solo per cosa? Perché così sarebbe stata in pace con sé stessa, solo perché così, allora, non sarebbe più stata la sola a soffrire? Egoista. «Sono solo stanca, tutto qui Sam» gli sorrise appena, avvicinandosi e sfiorandogli le labbra, le mani sulle sue spalle nude. Era davvero stanca, stanca di tutta quella farsa, stanca di tutto questo. Ed era possibile esserlo, dopo cinque anni? Aveva creduto, quando aveva deciso di fuggire, che sarebbe riuscita a dimenticare tutti quanto. Aveva creduto che nel giro di due, tre anni, le cose sarebbero migliorate. Credeva davvero che un uomo che non fosse lui avrebbe potuto prendere il posto che una volta aveva ricoperto? Credeva sul serio che Sam potesse essere il marito migliore, per lei?
    «Dovresti dormire di più, sai» mormorò lui, ignaro dei suoi pensieri confusi e affannati. «So quanto ci tieni ma..» cercò di aggiustare il tiro. Alzò lo sguardo sulla sua ragazza, su quella che sarebbe potuta divenire, con un semplice , la sua fidanzata. Ma lei tentennava, e Sam non capiva davvero perché.
    «Non voglio discuterne: amo quello che faccio, e lo voglio fare bene» avevano qualche divergenza, loro. Amara, o Meg che fosse, spesso e volentieri si ritrovava a notte fonda a pianificare nei minimi dettagli ogni attacco, ogni piccolo focolaio di ribellione, ogni giro di ronda nelle città, ogni spostamento. E per quanto Sam amasse la sua dedizione, sembrava che questa la sciupasse lentamente. Non sapeva, lui, che era la sua lontananza, il suo ricordo, a sciuparla pian piano. Le sfiorò le dita esili. Il polso era così sottile.
    «Stai mangiando abbastanza?» sembrava così malnutrita, quasi come l'aveva trovata il primo giorno che si erano incontrati. Sporca di terra e fango, i capelli biondi e lunghi aggrovogliati, e le forze che le erano mancate dopo il primo sguardo.
    «Sam» lo rimproverò quasi, guardandolo irrigidendosi «non ho bisogno della balia» mormorò, prima di allontanarsi di scatto, iniziando a vestirsi velocemente. Ogni giorno di più, riusciva a percepire le sfumature, i contrasti che c'erano tra loro. Non capiva come Sam non riuscisse a notarli, così evidenti e palesi com'erano. Eppure, non aveva il coraggio di rifiutarlo, di dirglielo. Di essere sincera.
    «Lo so, è solo che..» iniziò ad avvicinarsi, gesticolando il quel modo così dissimile dal suo da risultare irritante. Lo guardò di sottecchi, mentre continuava a parlare.
    «Okay» mormorò, come per chiudere il discorso. Sembrò non sentirla, perché proseguì, cercando di renderla partecipe dei suoi dubbi. Fossero stati quelli, i suoi dubbi. Non le interessavano, ad ogni modo. Doveva andarsene da quella stanza. Da quella casa. «Ho detto okay» scosse appena la testa, rendendosi conto di quanto scontrosa e scorbutica fosse stata. «Sam, mi dispiace, ma devo andare» prima di notte. Se fosse rimasta con lui, ancora mezzo nudo - fece appena una smorfia, notandolo - a discutere dei suoi problemi e delle sue domande che si poneva nell'ipotetica notte nella quale rimaneva sveglio - aveva qualche dubbio in proposito - non sarebbe più andata via. Lui annuì appena, osservandola curiosamente assorto. Come se ci vedesse qualcosa, in lei. Chissà che cosa. Uscì dalla stanza senza dire nient'altro, conscia che ogni parola sarebbe stata vana con lui. Non la ascoltava, poco c'era da fare.
    Così decise di passare tutta la mattinata fuori, per liberare la mente da ogni cosa. Il mercato giornaliero era quanto di più piacevole vi fosse nella capitale di Daneka, e Meg per qualche ora, sola, si sentì come quando da bambina sua madre le chiedeva di andare a prendere qualche spezia nella bottega nel centro. Sorrise mestamente, i ricordi che riaffioravano, uno schiaffo sul viso e un pugno nello stomaco ad annientarla. «Signorina?» la signora aveva in mano la mela che le aveva appena comprato.
    «Sì, grazie» mormorò, scuotendo la testa e accennando ad un lieve sorriso, prendendo la mela, prima di continuare la sua camminata per le vie della Capitale in quella giornata fresca, dove l'aria particolarmente pungente le arrossava le gote, come fosse una bambina. Fingendo, per un solo attimo, di esserlo realmente.
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    The torture of small talk with someone you used to love
    p
    enny osservava un gruppo di bambini scorrazzare per la via, inseguendo un piccolo stormo di piccioni. Erano tre. Una bambina, bionda, e due bambini dai capelli scuri, quasi neri, corti e la pelle chiarissima. La bella bambina doveva essere una ninfa, mentre i due bambini parte di una di quelle tante minoranze che vivevano a Daneka. Non avrebbe saputo riconoscere quale con precisione.
    Storse appena il naso. Non era giusto che una bambina si dovesse ritrovare a giocare con compagnie del genere. Doveva essere colpa dei genitori, senz'altro. Che scellerati. Anzi, che scellerate. Non badare alla propria bambina così? Tanto valesse che la mandassero a giocare nella foresta. Le comunità di pescatori, per quanto di ceto medio-basso, erano gruppi di ottime persone in confronto. Persone che sapevano attenersi al proprio ruolo, a differenza di quei due piccoli bastardi incuranti di trovarsi nel centro città. Anzi, peggio. In una delle strade nemmeno troppo lontane dalla reggia. Un giorno o l'altro se li sarebbero ritrovati a gironzolare in mezzo ai giardini reali, poco ma sicuro. Il giorno in cui Penny Margaret Jenna Tayron si sarebbe data alla macchia, pur di non convivere con i mendicanti di Erick.
    - Che schifo. - mormorò, scuotendo appena il capo.
    Erick si voltò verso la propria promessa sposa, a quelle due parole, distrattamente. Fece quasi per chiederle cosa le avesse provocato una tale reazione, quando si limitò a scrollare appena il capo, lasciando scivolare via anche solo l'idea. Non parlavano molto, in quei giorni, e per quel poco che lo facevano, entrambi ne avrebbe fatto volentieri a meno. Il matrimonio era sempre stato definito da molti come la morte di qualsiasi rapporto. Erick non l'avrebbe piuttosto definito, per quel poco che aveva già potuto assaporare ed immaginare, qualcosa affine al concetto di morte. La morte era qualcosa di diverso, tanto ricco di rammarichi quanto di ricordi di occhi luminosi, labbra fresche ed infervorate discussioni sul mondo in cui vivevano. Mondo, poi. Lo si sarebbe potuto definire mondo, un palazzo, una cucina ed una camera lontano dal corridoio. Tuttavia, era proprio ciò che diventava, con lei. Con loro, insieme. Un mondo ideale, inimmaginabile ed assurdo per chiunque altro che non fossero i sue due abitanti. Un'utopia mal riuscita, così bella, ma pur sempre così impalpabile.
    Un'utopia che non poteva non concludersi con una tragedia.
    Il matrimonio, tuttavia, si sarebbe piuttosto dovuto definire come l'evoluzione di qualsiasi amicizia, o almeno, era ciò che si era categoricamente prefissato di pensare riguardo quell'unione. Tra lui e Penny non c'era, e non sarebbe mai potuto esistere quello che veniva comunemente definito come amore, bensì nulla di più del mero affetto che comunque continuava a legarli pur dopo tutti questi anni. Era stata forse questa la ragione che lo aveva spinto alla proposta. L'affetto profondo non era, a suo parere, un sentimento da sottovalutare. L'amore, o almeno la passione, poteva sparire. Poteva dissolversi, per un motivo o per un altro. E quando svaniva, se rimaneva qualcosa, cosa non rimaneva se non l'affetto? Ecco, l'affetto era una sorta di amore maturato, per certi versi. Un sentimento più difficile a svanire, proprio in quanto così impalpabile e sottile. Un'utopia. Come quella sua stessa idea di matrimonio, d'altro canto. Come qualsiasi idea che avesse mai fatto capolino nel flusso dei pensieri del principe e come forse qualsiasi comportamento avesse mai avuto durante la sua esistenza. Era tutto un'utopia fine a sé stessa, che non poteva solamente che danneggiare chi ne veniva coinvolto.
    Lui stesso, non era altro che il frutto dell'utopia che aveva riguardo ciò che lo circondava, e della parodia di uomo che invece era. Come sarebbe stato una parodia di marito, e se ne rendeva conto. L'affetto. Come diamine avrebbe anche mai potuto basarsi solo sull'affetto? Su quell'affetto freddo che si poteva riassumere semplicemente nello sguardo che Penny gli lanciava e che lui stava ricambiando, in quello stesso momento, annuendo. Altro che utopie ed utopie. Si trattava solamente di stronzate. Pure e semplici stronzate, a cui aveva deciso di aggrapparsi per continuare a respirare. Stronzate che continuava a ripetersi, stronzate che continuava a ricordare, stronzate che anche in quel momento continuavano ad uscire dalle labbra rosee di Penny. Stronzate alle quali tuttavia continuava ad annuire, impassibile. Parole che non sembrava nemmeno voler sentire. Non gli interessava. Da molto, davvero troppo tempo non gli interessava più di nulla. Una parte di lui era stata davvero convinta che la relazione con quella che da tempo immemorabile definiva come la sua migliore amica avrebbe potuto giovargli. Giovare a tutti e due sarebbe stato chiedere troppo. Egoistico, eppure vero. Per giovargli od incredibilmente giovarle, però, forse avrebbe dovuto cercare di impegnarsi almeno un poco di più. Cercare di non ignorare le sue parole, forse. Cercar di attribuirgli un qualche significato che non sembrava trovargli. Cercare di innamorarsi del suo modo così forbito ed ignorante di parlare e delle sue pacate, nobili e cieche convinzioni. Cercare di innamorarsi delle sue espressioni schifate nei confronti di due poveri ragazzini, cercare di trovare un punto d'incontro con la sua ostentata nobile altezzosità. Parlasse lui, poi, di altezzosità. Non era altezzosità quella che, pur silenziosamente, riserbava nei confronti della ragazza? Non si sentiva forse superiore in qualche modo, additandola come ignorante?
    Cercare di innamorarsi da qualcosa di così diverso dalla ninfa figlia del buio.
    Quasi accennò ad un sorriso, probabilmente a sproposito. Forse era vero. Magari era lui la persona dannatamente più sdegnosa tra i due. E magari avrebbe potuto cambiare, per lei. Magari avrebbe trovato quella scintilla da preservare, pur in quei ragionamenti che adesso considerava così semplicistici ma che, col tempo, ormai ne era certo, avrebbe imparato ad apprezzare.
    - Tua padre era un rahmsesi. - le ricordò, dopo una piccola pausa, all'improvviso. Penny colse quasi una sorta di scintilla nello sguardo del futuro compagno, come se qualcosa lo avesse improvvisamente animato. Come se solo quell'insinuazione, che altro non era che una provocazione, avesse potuto dare un significato a quella comunicazione.
    - Non osare insultare mia madre. - ribatté di rimando la ragazza, aggrottando la fronte. Erick sorrise appena, scuotendo il capo. Ripeteva quel gesto troppo spesso, si rese conto. Una delle sue promesse di matrimonio sarebbe stata sicuramente un tentativo di migliorare i propri feed-back, senza dubbio. - Non è la donna che credi tu. -
    - Non era mia intenzione insultare nessuno. - le sorrise, benevolmente. Continuò a camminare per la via, superando la piazzetta dove ancora giocavano i ragazzini, incuranti. Penny lo seguì, intrecciando le dita della mano sinistra al suo braccio, quasi avesse paura di perderlo. O di perdersi. - Non c'è nulla di male nell'essere figlia di due razze diverse. - aggiunse, voltando il capo. - Non credi? - le chiese, vedendo che non rispondeva.
    - Io non sono una bastarda, e mia madre non è una puttana. - si limitò a sibilare la sua ramata amica, stringendo appena la presa al suo braccio. Chiaro. Doveva sentirsi davvero irritata, la ragazza, per essersi espressa in un modo così lontano dal suo normale pacifico disquisire. Il principe si scusò, tornando a fissare la strada. Solo una frase, lo portò a voltare nuovamente il capo verso la propria compagna.
    - E soprattutto non sono la tua bastarda. - aggiunse infatti, in un sussurro al suo orecchio. Un sussurro che sentì ripetersi ancora, ed ancora. Un sussurro che presto lo avrebbe impietrito.
    Fu un attimo. Una semplice occhiata, distratto, alla gente che affollava la strada. Un semplice lampo biondo - biondo? -, un semplice corpo dalle forme che conosceva talmente bene da averle quasi sapute disegnare. Ma soprattutto, due semplici lampi viola, che gli fecero gelare il sangue nelle vene.
    - Meg - mormorò, con il labbro che quasi gli tremava. Seguì quella figura bionda con lo sguardo, incapace di muoversi. Incapace di fare un solo, unico passo. E la osservò allontanarsi, ed allontanarsi ancora, i capelli al vento. Quegli occhi viola, quegli occhi viola che non poteva vedere, che era certo brillavano. Che ancora risplendevano come l'ultima volta che li aveva visti, così vivi. Così dannatamente vivi. Vivi come i movimenti veloci che smuovevano il suo corpo, vivi come i respiri che lo animavano.
    - Penny. - lo corresse la ragazza al suo fianco, alzando le sopracciglia, ancor più infastidita. Non ricevendo risposta alla propria precisazione, voltò il capo verso il proprio promesso sposo. E suo malgrado non poté che aggrottare la fronte, di fronte a quell'espressione indecifrabile, e a quel viso così improvvisamente pallido, così bianco. Così vecchio, quasi, e così improvvisamente stanco. Il viso, rifletté Penny, degli umani che venivano portati a corte. Il viso di chi vedeva scorrere la propria esistenza davanti agli occhi.
    Il suo sguardo, però, aveva qualcosa di diverso da quello dei prigionieri. Era come concentrato. Fisso, a guardare qualcosa che lei non poteva vedere. Gli sfiorò il braccio sinistro, ora preoccupata. Avrebbe giurato stesse tremando.
    Il principe si voltò a sua volta, distogliendo per un attimo lo sguardo dall'altro lato della via. Penny lo fissò, in silenzio, studiando quelle iridi chiare più lucide del solito. E quelle ciglia scure, quel volto dai tratti definiti, maturi, e regali. Sembravano in disaccordo con un'espressione tanto instabile. Fragile. Così poco adatta per un reale, così poco adatta per l'uomo che avrebbe sposato e che le sarebbe dovuto stare accanto. Fece una smorfia, mentre lui rivolgeva nuovamente lo sguardo alla via. Cercava qualcosa, cercava qualcosa febbrilmente con quelle pupille che scorrevano freneticamente tra i passanti.
    La propria mente vagava, improvvisamente, veloce quanto il suo sguardo che perlustrava la via. Come se anche solo quell'improvviso guizzo l'avesse trascinato in un vortice di ricordi. In un vortice di sentimenti non ben definiti. In un vortice in cui il tempo si era fermato, in un mondo che ormai credeva dimenticato. In un'epoca in cui lui era solo un principe sognatore, troppo giovane per capire come funzionasse il mondo, e quella donna solo...
    - Meg. - mormorò di nuovo, questa volta con più convinzione. Incredulo. Dannatamente incredulo, come solo poteva essere. Aveva incrociato ancora una volta con le iridi la figura di quella misteriosa donna bionda - bionda? -, questa volta più a lungo.
    E fu un altro attimo. Di punto in bianco sentì la stretta di Penny che si allentava, mentre lui correva. Mentre iniziava a correre, gridandosi di non averlo fatto prima. Di non essersi fidato di sé stesso, non appena ne l'aveva solo intravista. Di non essersi fidato di quei ricordi che sapeva essere impressi a fuoco nella propria mente. Di aver corso prima, per non rischiare di perderla di vista. La strada pareva meno affollata, da lontano. Decine e decine di persone che camminavano nella direzione opposta alla propria.
    Fece del proprio meglio per schivare quella massa di qualsiasi razza, età e provenienza. Quella massa da cui - saggiamente, credeva - Penny si era tenuta fuori, abbandonando del tutto la stretta al principe. Quella massa in cui ora era la ragazza a cercare qualcuno che amava.
    La raggiunse. Non seppe come, ma la raggiunse. Per un attimo si fermò, per riprendere il fiato che comunque gli mancò a poterla rivedere così vicina. Così viva. Sorrise, in qualche modo. Sorrise, tremante, pur già sapendo che non avrebbe avuto nulla da sorridere. Sorrise, mentre sentiva una forte stretta allo stomaco.
    - Meg. - mormorò, per la terza volta. La chiamò, così, a pochi passi di distanza. La chiamò con quel nome che non sapeva non sentiva pronunciare da tanto tempo quanto quello da cui non lo pronunciava.
    Ed in un fremito, cinque anni bruciati.
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    Edited by a little more - 13/4/2016, 22:24
     
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    i still want to drown whenever you leave. Please teach me gently how to breathe.
    M
    agico come un nome potesse risvegliare così tanti ricordi. Sconvolgente, come un nome potesse risvegliare una parte di te che credevi ormai morta. Impensabile come ciò che credevi impossibile, poi accadesse davvero. Ciò che avevi sperato, e che poi avevi constatato fosse solo il delirio di una povera stupida. Ciò che non potevi, ciò che non dovevi sperare. Perché era colpa tua, tutto ciò che era successo, ed era colpa tua se non potevi più sperarci. Cosa c'era di peggio di non poter additare nessuno, cosa c'era di peggio di non avere un capro espiatorio che ti facesse sentire leggera, libera, a posto con te stessa? Non era facile essere il capro espiatorio di sé stessi. Non era facile riuscire a convivere con la consapevolezza che se non avessi scelto te stessa, e il tuo meschino ideale di libertà, ora staresti bene. Come potevi convivere con te stessa, sapendo che la scelta che credevi vincente ti faceva morire più di quanto delle sbarre o delle catene ai polsi potevano farlo? Non poteva. Lo sapeva bene lei, Amara Rowe, che aveva costruito una nuova vita sulle macerie di quella vecchia, su quella vecchia bella e luminosa vita che già era una finzione di quella precedente. Una parodia, ecco cos'era. Si divertiva così tanto a distruggere ciò che creava? Si divertiva davvero così tanto a distruggere chi la circondava? No, certo che no. Eppure, sembrava proprio di sì. Il Fato non era stato abbastanza cattivo con te, Amara Rowe, da poterti permettere di fare ciò che più ti pareva? No, non è così che.. Non mentire. In verità, l'unica spiegazione a tutto ciò, a tutta la tua misera pallida e ironica esistenza, è che tu ti diverti a ferirti, e a scegliere la cosa che ti fa più male. Non è così, Amara? No. Non è così! Bugiarda. Sei una bugiarda, Amara? Sì che lo sei, e lo sai bene. Ma hai mai pensato a cosa succede alle persone che credono alle proprie bugie? Spariscono, lentamente, e prima che tu ne accorga sarai la nuova donna che hai finto di essere in questi anni. Non voglio essere questa donna. Di cosa ti puoi lamentare, Amara? Non puoi fare una smorfia al suono del tuo nome, perché è quello che ti sei scelta; non puoi lamentarti dell'uomo che hai accanto, perché è quello che hai scelto; non puoi lamentarti neppure del colore dei tuoi capelli perché l'hai scelto tu. Non è così. Non è così, dici? Eppure, avresti potuto smetterla di scappare da te stessa - quantomeno da te stessa, se non da lui - e non avresti voglia di lamentarti di nulla. Ironico come tutto ciò che hai scelto alla fine non ti stia granché bene. Ironico come tu ti diverta a scegliere la cosa che meno ti piace. Vuoi ancora dirmi che non ho ragione? Sei sbagliata, Amara Rowe. Tutto ciò che ti sta intorno, tutto ciò che è frutto di una tua scelta, tutto ciò che ti ha portata ad essere qui, è uno sbaglio che tu hai commesso. Ma infondo, sbagliata lo sei stata sempre, no? Frutto di un esperimento scientifico, e non dell'amore tra due persone, come pensavi di poter fare qualcosa di giusto nella tua vita?
    Non c'era nulla di cui lamentarsi. Sapeva di non poterlo fare, ed era per questo che, in quel periodo, finiva più spesso del solito per camminare tra le vie di Daneka. Il mercato giornaliero le schiariva i pensieri, e lei non poteva fare a meno di rilassarsi in quel clima così tiepido, che le faceva battere il cuore con tranquillità, lontana da quel luogo asettico che era Sam, che era il covo della ribellione. Nessuno che si toccava volontariamente, neppure un gesto di comune affetto, non un sorriso per il semplice piacere di farlo, non una risata, non un pensiero felice. Forse perché lì la felicità era un'utopia? Forse perché la risata sarebbe giunta solo a missione compiuta? Forse perché nessuno, lì, era felice? Al mercato, nulla di questo poteva importare. Al mercato, nessuno la conosceva, nessuno poteva riconoscerla. Né come Amara, né come la donna che era stata un tempo nel quale ogni cosa era sembrata più.. più bella? I profumi più intensi, i sorrisi più luminosi, gli sguardi più innamorati. Le mani più delicate, le labbra così soffici. Oh, un tempo nel quale lei stessa era riuscita a lasciarsi andare, finalmente, almeno per un po'. Pensare a lui era tabù nella giornata, ed era tabù sopratutto tra le braccia di Sam. Dio, Sam. Neppure gli dei avrebbero potuto aiutarla, con lui, ma forse, loro facevano il tifo per la sua sventura, forse erano addirittura loro ad aver spinto Sam ad un atto di coraggio ordinario. Avrebbe dovuto rispondergli presto, lo sapeva bene: per quanto un uomo potesse essere dolce, e quasi ingenuo quando si era proposto a lei, ad un certo punto capiva. Non voleva ferirlo, non più di quanto avesse giù ferito lui. Cercava di non rifare gli stessi errori ma talvolta era così difficile. L'amore era difficile, e lei non sapeva come amare. Ormai, si era rassegnata a dover vivere un'esistenza fatta di rimpianti e di errori.
    Morse ancora una volta la mela rossa. «Meg» una voce fioca, roca, titubante. Non si voltò, inizialmente. Il suo primo pensiero fu, come del resto capitava spesso in quegli anni che erano passati, che non stessero chiamando lei. Non potevano chiamare lei: solo una persona, di fatto, avrebbe potuto riconoscerla. Schiuse le labbra, ancora di spalle a quella persona. Sentiva il suo sguardo su di sé, così come sentiva che quella persona era in verità lui. Come aveva detto, nessuno poteva riconoscerla. Se non lui, l'unica persona della sua vita passata che avrebbe dovuto dimenticare, e che avrebbe dovuto dimenticarla.
    Non si voltò. Non poteva farlo. Lei era Amara. «Amara Rowe» aveva sussurrato al viso dalla pelle scura del Dunkeljor. Lui aveva aggrottato la fronte, interrogativo «questo è il mio nome». Era la prima volta che si presentava così, davanti a qualcuno. Si gratto appena il braccio, cercando di pulirsi via lo sporco, la polvere ed ogni residuo di un passato che le scorreva ancora nelle vene. Si guardò intorno, sospetta, prima di osservare l'uomo davanti a lei. Era passata poco meno di una settimana, eppure era convinta fosse un'eternità. Ogni minuto passato lontano dalle mura del palazzo le sembrava una vita lontana da lui. Non aveva potuto salutarlo. Non aveva potuto dirgli l'ultimo ti amo. Lui avrebbe capito, lo sapeva. Lui era intelligente, era furbo. Era dolce, e la conosceva a tal punto che sì, avrebbe capito. Non era solita dire "ti amo", ma avrebbe voluto dirglielo un ultima volta. Non ricordava nemmeno quando l'aveva fatto, prima di andarsene. Prima di fuggire, prima di sparire. Prima di abbandonarlo a sé stesso, in quelle mura che avevano messo in catene forse più lui di lei. «Sono Sam» l'uomo le sorrise, tendendole la mano.
    Velocizzò il passo, sperando di poter sfruttare il mercato per sfuggire a quelle tre semplici lettere. "Meg". Non era neppure abituata a sentirle, e quasi nemmeno a voltarsi se le sentiva pronunciare. Non era così facile, però, abbandonare un nome che era stato tutto, un tempo. Che era stata l'unica cosa alla quale aggrapparsi quando non ti rimaneva niente. 'Sono Meg' si ripeteva nella notte, quando era stata ridotta schiava e non ancora venduta al miglior offerente. 'Sono Meg', per non dimenticarlo. Per non dimenticarsi di chi era, e da dove veniva. Amara aveva chiuso il cerchio, e aveva sancito la fine alla vita di Meg. Amara, l'assassina di sé stssa.
    I passi rapidi si fecero quasi una corsa disperata contro il tempo, mentre il passato la rincorreva, e faceva di tutto per prenderla. Per non lasciarla andare, una volta ritrovata. Magari, in verità, erano solo i ricordi a tornare. Magari, nessuno in verità la stava rincorrendo e semplicemente le parole di Sam l'avevano spossata a tal punto che la sua paranoia si era fatta più acuta. Forse era solo stanchezza. Decelerò, fino a fermarsi. «Meg» sentì il cuore incrinarsi. Il respiro mozzarsi. Le gambe tremare, voltandosi.
    Incrociò quegli occhi chiari che aveva sempre amato. Incrociò lo sguardo dell'uomo che l'aveva fatta sentire libera, dentro quelle mura. Incrociò gli occhi dell'uomo che aveva abbandonato, preferendo sé stessa a lui. Le girò la testa, si sentì morire. Ancora ed ancora. Chiuse gli occhi per un istante. Li riaprì. «Erick» lui era lì. Il sussurro le uscì strozzato, mentre sentiva gli occhi pizzicare. Non poteva piangere, si disse. Non poteva essere debole, non poteva: lui avrebbe capito. Lui avrebbe capito, ancora una volta, quanto fosse fragile e piccola, e quanto fosse stupida. Respira. Lui era più uomo che mai. Le scappò un sorriso, persa in pensieri e ricordi. Un sorriso che lui sembrò ricambiare, solo per un istante. L'aria entrò tremula nei polmoni. Non si sarebbero dovuti vedere, secondo i suoi calcoli. Non si sarebbero dovuti più vedere, e se anche lui avesse scorto una chioma bionda tra le strade, non avrebbe mai potuto associarla a lei. Si morse il labbro inferiore, tremante. Espira, piano. Schiuse le labbra, snza realmente sapere cosa dire. Aveva il cuore in gola, e lo sentiva rimbombare nelle tempie, riempirle il cervello, lasciarla senza uno straccio di parola. Come si saluta una persona che ti credeva morta? Singhiozzo strozzato. «Erick» sei qui. Davanti a me. Erick. Il primo pensiero fu "sei vivo", come se fosse stata lei a credere che lui, il bel principe circondato dallo sfarzo, fosse morto. Qualcosa era morto, quando lei era fuggita. Forse, con Meg era morta anche la speranza. Speranza, quella che lui aveva sempre trovato. Ingenuo, quasi. Loro aprivano sempre dibattiti, loro litigavano. Lui era troppo speranzoso, troppo pieno di quella speranza e lei era ormai cinica, e credeva che di buono, al mondo, vi fosse solo lui. Lui che ti aveva amata come si amavano le cose preziose, quelle belle e delicate che si trattavano con cura, lui che ti aveva voluta conoscere. Tu, che ti eri aperta a lui come un fiore delicato, e che l'avevi amato come si poteva amare il proprio respiro, perché non ti era rimasto che quello. Era stato lui a far tornare in te la vita, ed era stato lui a far sbocciare dentro di te la voglia di rivendicare quel potere ingiusto messo nelle mani di una persona ingiusta. «Tu..» Tu eri l'amore della sua vita, e te n'eri andata. Come potevi averlo fatto sentire? Non ti vergognavi della meschina esistenza che compievi? Non avevi idea di cosa gli fosse successo, non avevi idea di nulla che lo riguardasse perché ti eri allontanato da lui in ogni cosa, evitando le informazioni, i gossip. I possibili matrimoni. Eppure lui era lì. Davanti a te. Ognuno davanti all'amore della propria vita, l'unica persona in grado di capirlo e coprire, chiudere, sistemare i buchi, le cicatrici, le crepe che avevano. L'unica persona in grado di poterti far sentire viva era lì. Proprio lì. E tu l'avevi uccisa, fuggendo.
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    The torture of small talk with someone you used to love
    E
    poi corse.
    Dapprima un passo verso di lei, incerto. Confuso, com'era confuso lui. Nulla di quello sarebbe dovuto essere possibile. Lui non sarebbe dovuto essere lì, a fissare e perdersi in quel viso candido che amava e che credeva morto. Morto. Sepolto assieme al cumulo di ricordi che aveva giurato di non rievocare, mai più, assieme a quella vita così lontana, assieme alle speranze inutili.
    Nessuno di loro due si sarebbe dovuto trovare lì. Nessuno avrebbe dovuto riconoscerla, nessuno avrebbe dovuto rincorrerla. Nessuno della famiglia reale avrebbe dovuto sorridere ad una ragazza al mercato. Muti comandamenti, mute convinzioni che forse li avevano portati dove si trovavano ora. Che forse non sarebbero dovuto esistere, che forse avrebbero dovuto condannare. Ma erano tutti così egoisti, infondo. Lui stesso era un grandissimo egoista, e se ne era reso conto molto tempo prima. Perché avrebbe avrebbe quasi voluto ringraziare quelle norme per avergli fatto incontrare una giovane schiava dagli occhi viola. Schiava del sistema, e ora schiava della sua stessa libertà.
    La baciò. Unì le loro labbra in un unico respiro spezzato. In un unico attimo di pace, tenuto in vita al suono di quei singhiozzi appena trattenuti. Avrebbe quasi voluto affondare le mani nella carne del suo viso, per sentirla ancora vibrare di vita. Viva. Viva com'era lei, vivi com'erano i ricordi di un tempo vissuto. Carne viva. Il suo nome, che ormai sussurrava inconsapevolmente ad ogni bacio leggero, era dolore e felicità assieme. Il dolore della perdita che, pur potendo stringere di nuovo la ragazza tra le braccia, sembrava ancora ardere nel petto. Meg. Era un nome proibito, quello. Meg Finwë. Un nome prezioso, più di quanto qualsiasi cosa a palazzo, o a Daneka, o nell'intero Impero sarebbe mai stato. La sua Meg.
    Sentiva gli occhi bruciare di lacrime. La stringeva a sé, sfiorandole piano il viso con una mano senza più dire una parola. Perché lo sapeva, una sola parola e tutto sarebbe crollato. Le parole erano pericolose, forse perfino più di quanto potevano esserlo i nomi. Forse perfino più di quanto potevano esserlo quei respiri intrecciati, quelle labbra fresche, quei due occhi viola. I propri occhi, le proprie iridi, scorrevano sui lineamenti di quel volto che le sue dita potevano sfiorare. Più la osservava e più si rendeva conto dei piccoli cambiamenti che avevano impreziosito il suo viso negli anni.
    Era cresciuta, ed era più bella che mai. Il biondo dei capelli leggermente lo confondeva.
    Ora le sorrideva. Un sorriso appena accennato, velato di tristezza, di nostalgia, di amore, che gli incurvava leggermente le labbra. Un sorriso unico tra quelli di quei cinque anni. Un sorriso veloce, che quando fece per parlare scemò altrettanto in fretta, lasciando posto al semplice sguardo di chi non sapeva da che parte cominciare. Di chi si era perso, di nuovo.
    Erano ancora stretti l'uno all'altra, sebbene i volti si fossero leggermente allontanati, come per studiarsi, chi sussurrando l'incredulo e chi l'impossibile. Non si sarebbero dovuti incontrare. Quelle parole, nella mente di entrambi, assumevano una valenza ben diversa.
    - Tu... - mormorò, finalmente, cercando un tono di voce sicuro. Un tono di voce consono al suo ruolo avrebbe detto Penny. Quasi non volendo lasciar ora trapelare le proprie emozioni, così forti, pur dopo averlo già fatto attraverso qualsiasi mezzo che non fosse la parola. O che non fosse un nome. - Tu sei morta. - disse, la fronte ora appoggiata a quella della mezza ninfa. Confuso. Felice, sì, ma turbato. Frastornato da ciò che stava succedendo. E per quanto ne sapeva, sempre che finalmente non fosse completamente impazzito, c'era ben poco di morto in tutto questo. Vita. Il fremito nella sua espressione, l'aria che faceva vibrare il suo corpo, l'energia che c'era tra loro erano vita. Vita pura, vita vera.
    La vita che sentiva di aver dimenticato quando se n'era andata. La vita che si era in qualche modo rifiutato di vivere, senza di lei. Quasi fosse stato un crimine, o un oltraggio. Quasi fosse stato un modo per oscurare la sua memoria, quello. Quasi avesse deciso che non era giusto essere felici, senza di lei. Ed in qualche modo tutto ciò era dannatamente vero. Perché la sua felicità era lei. Perché il suo respiro era lei. Perché la sua voglia di vivere era lei.
    Tu sei morta. - E sono morto anch'io. - E anche questo era dannatamente vero. Era morto, Erick Joffreel o, almeno, l'Erick Joffreel di cinque anni prima. Era cambiato da allora. La propria spensieratezza, che ora additava come stupidità, era sparita. Il sorriso, il sorriso vero, era sparito. E anche l'ingenuità, avrebbe voluto dire. Ma solo guardandola in quel momento, viva davanti a lui, già poteva rendersi conto di quanto si sbagliaase. Non voleva pensarci, tuttavia. Non voleva chiedersi come fosse viva. Non voleva chiedersi perché fosse viva. Gli bastava tutto quello. Non solo non voleva pensarci, ma non voleva nemmeno sapere, si rese conto. Quale colossale bugia. Quello era un aspetto che non aveva e non avrebbe mai perso. La curiosità. L'incessabile sete di conoscere che tante volte lo aveva assalito nei momenti meno opportuni. E che gliene aveva fatte passare non poche. Una fitta poco vicino al petto si premurò di ricordarglielo. Le informazioni erano quanto di più pericoloso potesse mai esistere, tanto per chi le acquisiva quanto per chi le donava.
    Le fitte si fecero più forti, ma non gli importò. Non era il momento. Quella era un'altra storia. Si limitò a seppellire il tutto in un respiro più lento e controllato. Ed in un sorriso. L'ennesimo.
    Si allontanò ancora un poco da lei, non riuscendo tuttavia ad allontanare lo sguardo dal suo volto. Non lo avrebbe più perso di vista per nulla al mondo, quel volto. In qualche modo aveva quasi paura che potesse scomparire, non appena avesse voltato il capo. Come se una brezza, un sospiro o un semplice battito di ciglio potessero farla volare via. Che assurdità. Lei era forte, se lo ricordava. Una delle persone più forti che avesse mai incontrato. Ci sarebbe voluto ben di più per spazzarla via.
    Spostò lo sguardo dietro di lei, osservando la folla del mercato. Erano ancora in mezzo alla via, l'uno stretto all'altra. Lasciò scorrere lo sguardo in velocità. Penny non c'era. E quel sentirsi sollevato da questo lo fece sentire anche la peggiore persona su quella terra.
    Forse era tornata a palazzo, non trovandolo. Una persona ragionevole l'avrebbe fatto, vedendo tutta quella calca. Peccato che lei fosse quanto di più lontano a una persona ragionevole che lui conoscesse.
    Sfiorò distrattamente la guancia di Amara Rowe. Non che si potesse definire lui tanto diversamente.
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